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Ano: 2005  Vol. 9   Num. 2  - Abr/Jun Print:
Original Article
Il Trattamento Chirurgico delle Paralisi del Nervo Facciale
The Surgical Treatment of Facial Nerve Palsies
Author(s):
Alberto Rinaldi Ceroni, MD, Giovanni Carlo Modugno, MD, Gian Gaetano Ferri, MD.
Palavras-chave:
nervo facciale, chirurgia, paralisi, frattura, rocca petrosa.
Resumo:

Introduzione: L’identificazione della più appropriata pianificazione terapeutica da adottare in caso di lesione diretta od indiretta del nervo facciale è tuttora motivo di discussione. La chirurgia riparativa si basa generalmente sull’anastomosi ipoglosso-facciale (XII-VII), mentre la decompressione chirurgica del nervo trova invece indicazione nella patologia di tipo infiammatorio e traumatico (soprattutto nei casi di frattura della rocca petrosa). Obiettivi: Ricercare la strategia terapeutica ottimale da adottare nei casi di paralisi post-traumatiche del nervo facciale tenendo in considerazione il ruolo svolto dagli elementi clinici, radiologici ed elettrofisiologici. Metodi: Nel periodo 1989-2001 sono stati esaminati 32 pazienti con paralisi post-traumatica del nervo facciale e nel sottocampione di 29 casi con frattura longitudinale è stata effettuata un’analisi multivariata per la ricerca di fattori prognosticamente favorevoli. Risultati: Nel 75% dei casi (16) sottoposti a decompressione parziale del nervo per via transmastoidea extralabirintica sec. May, è stato raggiunto un ripristino funzionale soddisfacente (grado I-II di House-Brackmann). Conclusioni: Non è facile, anche per motivi metodologici, raccogliere una casistica rappresentativa che consenta di chiarire definitivamente i molti aspetti ancora controversi che concernono l’ottimale trattamento chirurgico delle paralisi del nervo facciale. Sicuramente il reclutamento della casistica gestito su scala multicentrica potrà, almeno in parte, ovviare al problema della dispersione territoriale di questo genere infrequente di patologia; a tal fine, sarà prioritaria la necessità di raggiungere una più ampia standardizzazione di tutti i parametri clinici utili alla comprensione del problema, eventualmente facendo un più ampio ricorso allo strumento della Consensus Conference.

INTRODUZIONE

Nonostante i traguardi raggiunti in campo diagnostico e terapeutico, soprattutto sul versante della tecnica chirurgica e su quello delle tecniche di monitoraggio intraoperatorio, sono ancora numerosi i problemi controversi o irrisolti, legati alla corretta strategia terapeutica da adottare in caso di lesioni che coinvolgono direttamente od indirettamente il nervo facciale. Anche se i motivi di tale incertezza sono da ricondurre principalmente al limitato numero di studi sperimentali concernenti la problematica in oggetto ed alla difficoltà di adottare, in questi ultimi, criteri metodologici rigorosi nel reclutamento e nella valutazione dei risultati, l’analisi della letteratura dell’ultimo decennio consente tuttavia di tracciare ugualmente alcune linee di condotta, unanimemente condivise, nei principali ambiti applicativi della chirurgia del nervo facciale.

Questi ultimi concernono essenzialmente la chirurgia riparativa per patologia intrinseca anche di tipo iatrogeno finalizzata a ripristinare la continuità anatomica del nervo facciale, la chirurgia che possiamo definire preventiva effettuata esclusivamente per lesioni di tipo intrinseco (patologia infiammatoria e traumatica del nervo) atta ad evitare l’instaurarsi di un danno irreversibile o più severo della funzionalità neuronale ed infine la chirurgia di accesso al basicranio per la quale si prevede di trattare patologie estrinseche in stretto rapporto di contiguità con il nervo il cui idoneo trattamento potrebbe implicarne la dislocazione (re-routing). Quest’ultimo aspetto comporterebbe una trattazione necessariamente estesa, articolata ed influenzata dalla notevole evoluzione delle tecniche chirurgiche sempre meno invasive; riteniamo pertanto più utile focalizzare gli aspetti più dibattuti e più studiati relativi all’intervento riparativo forse più utilizzato in assoluto rappresentato dall’anastomosi ipoglosso-facciale ed al problema della decompressione del nervo facciale per patologia infiammatoria o traumatica. L’anastomosi ipoglosso-facciale (XII-VII) è sicuramente l’intervento più utilizzato per reinnervare la muscolatura facciale in caso di sezione (neurotmesi) o di grave lesione neurobiologica (assonotmesi) prossimale del nervo facciale.

È infatti da tutti condiviso che in caso di lesione distale del nervo sia sempre più opportuno, per le migliori garanzie di successo funzionale, procedere ad un intervento di anastomosi facio-facciale (VII-VII) anche se la possibile perdita di sostanza potrebbe imporre l’impiego di un re-routing parziale (sempre preferibile) o di un innesto nervoso con anastomosi termino-terminale. I motivi per i quali si tende a preferire l’anastomosi XII-VII nel caso di una lesione prossimale del nervo sono molteplici:

1) l’impossibilità di individuare il moncone prossimale del nervo (ad es. nel corso di chirurgia dell’angolo ponto-cerebellare);

2) la difficoltà di effettuare un’anastomosi diretta od indiretta in un campo operatorio particolarmente angusto;

3) l’assenza della guaina epineurale a tale livello, la pulsatilità del tronco encefalico e l’ambiente acquoso sono infine elementi che rendono problematica la “stabilizzazione” dell’anastomosi, elemento, quest’ultimo, che potrebbe pregiudicare la riuscita dell’intervento.

L’anastomosi XII-VII viene considerata una procedura di relativa semplice esecuzione ed è associata ad una buona garanzia di successo se, con “successo”, si identifica il ripristino di un buon tono muscolare e la possibilità di effettuare movimenti attivi volontari (in pratica è raro ottenere una condizione funzionale di grado III secondo la scala di valutazione di House- Brackman, HB). Gli svantaggi sono essenzialmente legati al danno iatrogeno del nervo ipoglosso ed all’ipercinesia e sincinesie che possono incidere anche notevolmente sul risultato funzionale globale.

Per ovviare alle alterazioni di tipo discinetico sono stati proposti accorgimenti di tipo tecnico (1) quali ad esempio la legatura dei rami terminali nasali e zigomatici (per veicolare maggiormente il flusso rigenerativo verso territori tra loro distanti) oppure l’impiego di una strategia terapeutica che prevede il ricorso a tecniche di reinnervazione combinata (2,3) o l’associazione di tecniche di reinnervazione con procedimenti plastici o protesici (2).

La riduzione della funzione linguale conseguente alla sezione del nervo XII che, peraltro, come valutato da alcuni studi sperimentali, può essere sostanzialmente compensata (4-6), rappresenta l’unico elemento da tenere in considerazione per l’indicazione alla chirurgia:

la presenza di un deficit di funzione controlaterale del nervo ipoglosso, la neurofibromatosi di tipo centrale (NFII) o misto (NFIII) od il deficit omolaterale dei nervi misti costituiscono infatti vere e proprie controindicazioni assolute all’intervento. Al fine di ovviare al problema della paralisi iatrogena del XII n.c., già in tempi non più recenti, furono proposti metodi alternativi alla semplice anastomosi diretta termino- terminale.

Uno di questi, ad esempio, prevedeva l’utilizzo di un’autoanastomosi diretta XII-XII tra il moncone prossimale dell’ansa discendente ed il moncone distale del nervo ipoglosso p.d. per tentare un recupero, almeno parziale, della funzionalità dei mm.linguali (7). Seguendo questa linea di ricerca, del tutto recentemente, sono state proposte alcune nuove tecniche che hanno in comune l’accorgimento di evitare la sezione totale del nervo ipoglosso per risparmiare l’integrità anatomo-funzionale di un congruo numero di motoneuroni (2,8-11).

La sezione parziale, solitamente effettuata a valle della diramazione dell’ansa discendente, può interessare un contingente di fibre che varia da un terzo ad un mezzo circa di tutte le fibre contenute nel nervo.

Per quanto concerne gli altri aspetti tecnici è possibile utilizzare una sutura diretta di tipo termino-terminale o di tipo terminolaterale oppure, in caso di impiego di materiale di innesto (sutura indiretta) si deve, per contro, utilizzare sia la sutura termino-laterale (innesto-XII) che quella termino-terminale (innesto-VII).

Lo svantaggio di dover eseguire due suture viene comunque controbilanciato dalla possibilità di effettuare l’anastomosi in totale assenza di tensione tra i monconi. Tra le anastomosi di tipo diretto si ricorda il metodo proposto dalla TERZIS (2) che prevede una sezione parziale di tipo trasversale e longitudinale del XII n.c. ed una sutura di tipo termino-terminale.

La sezione di tipo longitudinale di una porzione del nervo, che d’altronde avrebbe lo svantaggio di aumentare considerevolmente il rischio di danneggiare gli assoni veicolati al suo interno, consentirebbe di evitare l’innesto e di ottenere una sutura termino-terminale in assenza di tensione tra i monconi. Per evitare la sezione longitudinale del nervo ipoglosso e l’impiego di un innesto, del tutto recentemente, si sta affermando la tecnica originariamente proposta da HITSELBERGER (12) che prevede una decompressione parziale di una significativa porzione prossimale di nervo facciale (a monte del foro stilomastoideo) e di un suo rerouting “retrogrado” o “inferiore”. In questo caso, l’anastomosi diretta è di tipo termino-laterale. A tale proposito è utile ricordare che i risultati forniti da studi sperimentali condotti da scuole diverse (9-11) sono particolarmente incoraggianti.

L’ultima evoluzione di questo tipo di tecnica prevedrebbe infine una sutura termino-laterale “micro-invasiva” (pure end-to-side) nella quale il danno arrecato al XII n.c. sia limitato ad una minima porzione di tessuto epineurale e non coinvolga gli assoni (!). I risultati, peraltro del tutto preliminari e limitati, non consentono comunque di esprimere un giudizio attendibile sulla tecnica (13). Tra le anastomosi di tipo indiretto si ricorda il metodo proposto da May che prevede una sezione limitata trasversale del XII n.c. È comunque utile sottolineare, come peraltro enunciato dallo stesso Autore, la possibilità di dover associare questo tipo di trattamento ad altri metodi riparativi nel caso di un ridotto numero di unità motorie reinnervate (8). Per tracciare un giudizio conclusivo sulla tecnica di anastomosi XII-VII è possibile fare riferimento ai numerosi studi sperimentali presenti in letteratura (3-6,14,15) dai quali è possibile dedurre come l’utilizzo del nervo XII possa offrire le migliori garanzie di riuscita dell’anastomosi (fino al 90% dei casi considerando la tecnica classica) rispetto ad altri nervi motori donatori (XI, X, IX, radice motoria del V). Per quanto riguarda la quantificazione del ripristino funzionale espressa mediante la scala di House- Brackmann pur considerando che, per quanto riguarda le tecniche alternative, esistono casistiche rappresentative (3,16,17) solo per la tecnica proposta da MAY (8), è possibile raggiungere una funzione soddisfacente (grado III) in una percentuale di circa il 60%.

Sono comunque stati riportati anche risultati sorprendenti (grado II) seppure in una percentuale molto minore di casi (e ciò vale anche per i risultati peggiori). Dalla letteratura è possibile infine ricavare il dato, sostanzialmente condiviso, relativo ai fattori in grado di condizionare pesantemente il risultato finale come l’età e, soprattutto, il tempo intercorso tra l’evento lesivo e l’intervento riparativo che non dovrebbe superare i 18-24 mesi (4-6).

Anche in questo caso, comunque, sono stati osservati, seppur raramente, buoni risultati anche a lunga distanza (oltre 4 anni) dall’evento lesivo (4). Sicuramente più complesse ed articolate sono, per contro, le problematiche legate all’intervento di decompressione del nervo facciale, che, come è noto, rappresenta una procedura chirurgica di non semplice esecuzione che trova indicazione essenzialmente nella patologia intrinseca di tipo infiammatorio (paralisi idiopatica, virale e nella sindrome di Melkersson-Rosenthal) e di tipo traumatico, soprattutto nel contesto delle fratture della rocca petrosa. Per quanto concerne la prima indicazione è necessario ricordare che la ormai storica diatriba tra i sostenitori di un atteggiamento interventista ed i sostenitori della politica del “wait and see” non solo non ha trovato una soluzione condivisa ma si è anzi esacerbata con la pubblicazione recente di tre contributi scientifici che, seguendo criteri metodologici comunque non facilmente confutabili, hanno portato a risultati e conclusioni sostanzialmente divergenti tra loro (18-20). In ordine di importanza oltre che cronologico è d’obbligo ricordare lo studio prospettico multicentrico condotto da GANTZ e coll.(18) che si basa su una casistica di 31 casi sottoposti a decompressione totale del nervo (compreso il primo tratto) in funzione dei criteri di indicazione e della tecnica proposti da FISCH (21). Come è noto, tali criteri devono emergere esclusivamente dallo studio di conduzione neuronale effettuato mediante la tecnica elettroneuronografica (ENoG) che deve monitorare il decorso immediato (entro i primi 14 giorni) dall’esordio sintomatologico (22).

Tale studio confronta i risultati ottenuti rispetto ad un congruo gruppo di controllo e consente di confermare non solo l’utilità dell’intervento di decompressione, confermando pertanto a più di 20 anni di distanza i risultati dello studio originale di FISCH ed ESSLEN (22), ma anche di verificare l’assoluta importanza del fattore legato al “quando” intervenire (timing).

Viene infatti dimostrato che una latenza eccessiva tra l’esordio della paralisi e l’intervento chirurgico rappresenta un fattore in grado di condizionare il risultato funzionale. A conclusioni diametralmente opposte, per contro, giungono gli Autori di una recente valutazione metaanalitica, condotta secondo i criteri metodologici dell’Evidence Base Medicine (EBM), che ha preso in considerazione 104 studi sperimentali citati nel Medline nel periodo compreso dal 1966 al 2000 (19).

Tale valutazione, infatti, permette di identificare solo un limitatissimo numero di studi (18, 21, 23-25) che pur basandosi su un criterio di reclutamento di tipo prospettico e considerando la presenza di un gruppo di controllo, non soddisfano totalmente i criteri di ammissibilità alle prime due classi metodologiche, la sola che consentirebbe di trarre conclusioni attendibili. Se comunque gli Autori dell’analisi non trovano valide argomentazioni per avvalorare o negare il ruolo terapeutico della decompressione chirurgica, ci sembra interessante soffermarsi sui criteri metodologici dettati dalla EBM ed esporre alcuni elementi di critica che possono, a nostro avviso, costituire un supporto concettuale anche per riqualificare l’importanza delle ricerche prese in esame dallo stesso studio.

Secondo tali criteri, infatti, gli studi di classe I o II dovrebbero prevedere rispettivamente la randomizzazione nei criteri di reclutamento e l’utilizzo di un procedimento di valutazione indipendente nella raccolta dei risultati (in altri termini, per l’EBM, l’adozione di una scala di valutazione standardizzata come quella di House-Brackmann non viene ritenuto un fattore metodologico sufficientemente rigoroso in quanto la valutazione dei risultati dovrebbe comunque prevedere il confronto oggettivo tra il giudizio di due o più esaminatori). Per quanto riguarda l’aspetto della randomizzazione, considerate le importanti implicazioni psicologiche legate alla patologia in oggetto e la necessità di ottenere un consenso informato all’intervento, gravato peraltro da possibili anche se relativamente rare, complicanze funzionali, ci sembra improbabile, se non impossibile, che si possa ottenere una coorte significativa di pazienti su cui basare lo studio sperimentale anche utilizzando un reclutamento multicentrico.

Infine, per quanto riguarda il secondo aspetto non si comprende come non possa essere considerato ugualmente e sufficientemente rigoroso un metodo di valutazione dei risultati basato sull’esclusivo utilizzo di una scala di valutazione oggettiva del grado di deficit facciale, soprattutto considerando che il compito dell’esaminatore dovrebbe risultare particolarmente semplice, dovendo limitarsi a classificare il risultato tra due macro-aggregazioni (classi I e II versus classi III-V HB).

In altri termini, riteniamo che i criteri atti a differenziare una classe II (funzione facciale quasi normale) da una classe III di HB siano sufficientemente chiari da consentire un’agevole discriminazione, senza possibilità di errore, anche da parte di un osservatore non particolarmente esperto e tale da non giustificare il ricorso ad un procedimento di valutazione indipendente dei risultati. Il terzo e recentissimo (successivo alla pubblicazione della metanalisi) contributo sul tema della decompressione del nervo facciale (20), pur condividendo l’atteggiamento interventista enunciato nel lavoro di GANTZ et al. (18) si trova in disaccordo circa la tecnica da utilizzare ed il “timing”. Pur offrendo il fianco alle stesse critiche metodologiche dettata dai principi dell’EBM, YANAGHIHARA et al. giungono alla conclusione che anche la decompressione parziale, condotta secondo i criteri dettati originariamente da MAY (via trans-mastoidea extralabirintica) (26), non solo trova ancora uno spazio di applicazione possibile nell’ambito di questa patologia, ma lo trova anche oltre i termini temporali restrittivi indicati dallo studio di GANTZ et al. Da un punto di vista metodologico, forse l’aspetto più interessante di questo studio è stato quello di focalizzare soprattutto il problema relativo all’indicazione chirurgica, individuando dei criteri univoci con cui si potesse minimizzare la probabilità di effettuare un intervento chirurgico inutile, senza il quale si sarebbe potuto ugualmente ottenere un ripristino funzionale soddisfacente.

A tale proposito è utile infatti ricordare che anche il paziente classificato “a prognosi sfavorevole”, sulla base dell’indagine elettroneuronografica (ENoG), potrebbe ugualmente ottenere (con una probabilità del 50%) un risultato funzionale soddisfacente a distanza anche senza l’intervento chirurgico.

Per ovviare a tale possibilità, Yanaghihara et al. consigliano di porre l’indicazione alla chirurgia sulla base di criteri elettrofisiologici più restrittivi (superamento della soglia di degenerazione del 95% anziché del 90%).

Con tale presupposto metodologico, gli Autori avrebbero infatti dimostrato che con la decompressione parziale del nervo condotta dal 30o al 60o giorno dall’esordio sintomatologico si possono ottenere risultati percentualmente migliori (comunque mai di grado I HB) rispetto al gruppo di controllo (38% vs 23% di grado II HB). In conclusione, allo stato attuale delle conoscenze non è possibile tracciare una linea di condotta terapeutica di tipo chirurgico unanimemente condivisa nei confronti della paralisi idiopatica del nervo facciale. Certamente l’atteggiamento interventista non solo si è maggiormente diffuso ma sono state anche rivalutate procedure di decompressione meno invasive in quanto limitate in estensione: nonostante ciò, probabilmente, la diatriba continuerà per anni.

Per quanto concerne il problema dell’indicazione alla decompressione chirurgica per patologia traumatica del nervo, l’analisi della letteratura permette sicuramente di evidenziare un maggiore accordo tra i diversi Autori. In questo caso, comunque, il problema è complicato dal fatto che non sempre è possibile fare ricorso precocemente alle utili indicazioni dell’elettrofisiologia (esame ENoG).

Spesso, d’altronde, esistono circostanze, suffragate dai dati clinici e dall’Imaging, che consiglierebbero comunque un intervento esplorativo al fine di identificare precocemente una lesione anatomica del nervo suscettibile di un intervento di tipo anastomotico.

A tale proposito si ricorda che l’esame ENoG non è però in grado di discriminare la condizione di neuroaprassia (blocco transitorio della conduzione assonale senza lesioni di tipo anatomico) da una assonotmesi (lesione anatomica degli assoni con integrità dell’epinervio) o da una neurotmesi (sezione a tutto spessore del nervo) e che anche il ricorso a tecniche radiologiche sofisticate rappresenta un elemento insufficiente per dirimere tale dubbio. Una recente revisione critica sull’argomento (27) esprime questo stato di incertezza anche se, nonostante ciò, utilizza i dati analizzati (pseudo meta-analisi) per proporre un algoritmo di comportamento che contempla le due opzioni terapeutiche principali (attendista vs interventista) in funzione di tutti gli elementi clinici e laboratoristici ricavabili in fase precoce.

Secondo tale algoritmo, l’intervento esplorativo dovrebbe trovare una indicazione tassativa solo se l’esame ENoG dimostra la presenza di una degenerazione neuronale maggiore del 95% entro i primi 6 gg. dall’esordio della paralisi. Se tale entità di degenerazione dovesse svilupparsi in un periodo di tempo maggiore (dal 6o al 14o giorno), l’indicazione persiste (consigliata) ma è meno tassativa.

Gli Autori dello studio sottolineano, per contro, come sia consolidata l’opinione di astenersi da ogni atto chirurgico (anche di tipo esplorativo) se la paralisi del VII n.c. risulti incompleta o si esprima tardivamente.

L’algoritmo, infine, non contempla la condizione clinica, peraltro frequente, in cui non sia possibile ricavare i dati ENoG in fase precoce (entro le 2 settimane). È utile infatti ricordare che, da un punto di vista pratico, è presente una finestra temporale (che inizia durante la 3ª settimana e si conclude entro il 2o mese) durante la quale non è possibile ottenere dati prognostici attendibili dai test elettrofisiologici anche considerando l’apporto dell’elettromiografia (EMG) di detezione (quest’ultima metodica è comunque utile non solo in fase precoce, per confermare i dati dell’ENoG, ma anche in fase tardiva, per rilevare i segni subclinici di reinnervazione). Il comportamento da seguire in caso di reclutamento tardivo del paziente (dopo la 2ª settimana) resta pertanto una problematica aperta: appare razionale considerare l’apporto delle indagini radiologiche (HRTC della Rocca Petrosa) che potrebbero mettere in evidenza l’interessamento del canale del Fallopio da parte della rima di frattura, ma il ruolo di queste indagini, in tale contesto, resta ancora da definire. A tale proposito, ci sembra utile ricordare la recente proposta classificativa di YANAGIHARA (28) che si prefigge lo scopo di superare i limiti della classica suddivisione in fratture longitudinali, trasversali ed oblique e di offrire uno strumento per meglio uniformare i parametri clinici negli studi di tipo sperimentale. Non si registrano, per contro, sostanziali novità relativamente all’aspetto del tipo di trattamento chirurgico da adottare in funzione del tipo di frattura.

A differenza di quanto accade per la patologia infiammatoria, infatti, l’esigenza di raggiungere il primo tratto del canale del facciale nel caso di una frattura trasversa viene soddisfatta da un approccio trans-labirintico (e non da un approccio conservativo trans-temporale sopralabirintico di Fisch od attraverso la via della fossa media). In caso di frattura longitudinale, per contro, si è soliti utilizzare la via conservativa trans-temporale sopralabirintica di MAY (26).

MATERIALI E METODI

Nel periodo 1989-2001 sono giunti alla nostra osservazione 34 casi di paralisi post-traumatica del nervo facciale relativi a 32 pazienti (2 casi di paralisi bilaterale) di età media di 26 anni (range 3 - 57 anni), 6 di sesso femminile e 26 di sesso maschile. Per quanto concerne gli aspetti descrittivi si segnala che:

1) in 24 casi (70,5%) la paralisi era completa all’esordio;

2) 16 casi (47,5%), per la presenza di concomitanti problemi di tipo neurologico, sono stati osservati tardivamente (dopo 3 settimane dall’esordio);

3) in soli 5 casi (15%) si è registrata una frattura trasversale della rocca (tipo IVb di YANAGIHARA). Nel 50% dei casi (16 pazienti) è stato effettuato un intervento di decompressione parziale per via transmastoidea extra-labirintica sec. MAY che ha previsto in tutti i casi l’apertura di quasi tutto il canale di Fallopio (ad eccezione della prima porzione) e la sezione longitudinale della guaina epineurale esposta.

In 4 casi il coinvolgimento massivo della parete posteriore del condotto da parte della frattura ha condizionato la scelta di una tecnica aperta. Per l’ossiculoplastica si è fatto ricorso all’incudine rimodellata in 10 casi, ad una columella totale (TORP) in 2 casi ed ad una miringostapedopessia in 1 caso (3 casi erano anacusici).

L’indicazione alla chirurgia nei casi giunti precocemente all’osservazione clinica si è basata sulle indagini elettrofisiologiche (ENoG ed EMG). Il criterio da noi utilizzato, predittivo di prognosi sfavorevole, è stato più restrittivo rispetto ai canoni classici e si è basato sull’assenza del potenziale di sommazione (degenerazione del 100%) valutata durante il periodo di osservazione di 3 settimane. Nei casi giunti tardivamente (oltre le 3 settimane), il criterio di operabilità si è basato sulla presenza associata dei seguenti criteri:

1) degenerazione del 100% al test ENoG;

2) segni di grave denervazione all’esame EMG;

3) presenza di rima di frattura all’esame HRTC delle rocche petrose anche senza coinvolgimento diretto del canale del facciale;

4) osservazione tardiva non superiore ai 18 mesi.

Tutti i casi sono stati seguiti per un periodo minimo di 12 mesi. Per verificare il ruolo dei fattori correlati ad un buon esito funzionale è stata effettuata un’analisi multivariata (metodo della regressione logistica) nel sottocampione di 29 casi di frattura di tipo longitudinale (dalla classe I alla classe IVa di Yanagihara). La variabile dipendente è stata il ripristino funzionale classificabile in classe I-II di HB. Le variabili indipendenti sono state:

l’età (< o > di 35 anni), il periodo di osservazione (entro od oltre i 21 giorni), la presenza di complicanze maggiori a carico del SNC, l’entità della paralisi (paralisi incompleta vs paralisi completa), il tipo di insorgenza della paralisi (immediata vs tardiva) ed il periodo di latenza tra l’esordio della paralisi e la chirurgia (< o > di 2 mesi).

RISULTATI

Tra i 18 casi osservati precocemente, i dati ENoG deponevano per una prognosi sfavorevole in 8 casi (tutti operati tranne uno) e per una prognosi favorevole in 10 casi (tra cui 6 casi con paralisi incompleta all’esordio).

Gli 8 casi con prognosi sfavorevole hanno mostrato al termine del follow-up un ripristino funzionale completo o quasi (grado I o II di HB) in 6 casi (uno dei quali non è stato sottoposto ad intervento chirurgico) ed un ripristino parziale (grado III) nei restanti 2 casi.

In tutti i casi con prognosi favorevole (10 pazienti), per contro, il ripristino funzionale al termine del follow-up è stato completo o quasi (grado I o II di HB). Tra i 16 casi reclutati tardivamente, i dati ENoG deponevano per una prognosi sfavorevole in 12 casi (9 dei quali sono stati sottoposti ad intervento di decompressione) e per una prognosi favorevole in 4 casi (tra cui 2 casi con paralisi incompleta). Tra i 9 casi operati è stato osservato un ripristino funzionale completo o quasi (grado I o II di HB) in 7 casi, un ripristino parziale (grado III HB) in un caso ed un insuccesso nell’ultimo caso. Tra i 3 casi non operati con prognosi sfavorevole si è registrato un ripristino funzionale quasi completo in un caso ed un ripristino parziale (grado III HB) nei restanti 2 casi.

In tutti i casi con prognosi favorevole (4 pazienti), per contro, il ripristino funzionale al termine del follow-up è stato completo o quasi (grado I o II HB). Considerando pertanto globalmente il sottocampione dei 16 casi sottoposti ad intervento di decompressione è stato possibile ottenere un ripristino funzionale completo o quasi in 12 casi (75%), un recupero parziale in 3 casi (19%) ed un insuccesso in un solo caso (6%).

A tale proposito è interessante rilevare che, in tale sottocampione, i peggiori risultati sono stati ottenuti in 2 dei 4 casi con frattura traversa (classe IVb di YANAGIHARA) e nei 2 su 5 casi di decompressione effettuata oltre il secondo mese (Tab.1). Per quanto concerne la sede della lesione è stata rilevata una maggior frequenza di alterazioni (lesione di continuo del canale di Fallopio per schiacciamento ad opera della catena ossiculare dislocata) nell’area del ganglio genicolato (8 casi su 16).

In solo 2 casi non è stato possibile documentare la sede della lesione del VII n.c. (Tab.1). Per quanto riguarda infine il risultato dell’analisi multivariata, il modello matematico ha permesso di identificare 4 fattori correlati alla prognosi che in ordine di importanza sono stati (Tab.2): 1) l’attribuzione di classe prognostica favorevole mediante l’esame ENoG effettuato entro le prime 3 settimane dall’esordio della paralisi; 2) il periodo di latenza tra l’esordio della paralisi e la chirurgia; 3) l’entità della paralisi all’esordio (paralisi incompleta); 4) l’assenza di complicanze neurologiche maggiori.





DISCUSSIONE

I risultati del nostro studio ricalcano fondamentalmente quanto emerge dalla letteratura (29,30) anche se l’assenza di un rappresentativo gruppo di controllo (casi osservati sia in fase precoce che tardiva, appartenenti alla classe prognostica sfavorevole, non sottoposti ad intervento di decompressione) non ci consente di trarre conclusioni definitive sui criteri da adottare per l’indicazione alla terapia chirurgica. La maggiore frequenza relativa di casi con solo recupero parziale nel sottogruppo di casi giunti all’osservazione tardiva, che, pur appartenendo alla classe con prognosi sfavorevole, non sono stati operati (2 casi su 3 pari al 66,6% versus 2 casi su 9 operati pari al 22%) ci ha comunque indotto a mantenere un atteggiamento in generale più favorevole nei confronti dell’indicazione all’intervento chirurgico. Anche dai limiti metodologici del nostro studio prospettico, basato sull’esperienza da noi maturata nell’arco di un decennio, si comprende la difficoltà di come non sia facile raccogliere una casistica rappresentativa per analizzare il peso relativo dei diversi fattori che possono condizionare il risultato funzionale e, di conseguenza, per chiarire definitivamente i molti aspetti purtroppo ancora controversi che concernono l’ottimale trattamento chirurgico delle paralisi del nervo facciale.

CONCLUSIONI

Il reclutamento della casistica gestito su scala multicentrica potrà, almeno in parte, ovviare al problema della dispersione territoriale di questo tipo di patologia, già di per sé infrequente; sembra comunque evidente che uno dei problemi prioritari sarà quello di raggiungere una più ampia standardizzazione di tutti i parametri clinici utili alla comprensione del problema, codificando meglio le situazioni di incertezza, eventualmente facendo un più ampio ricorso allo strumento della Consensus Conference.

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